Italia tra i Paesi con più NEET in Europa: cosa vuol dire e come si interpretano gli ultimi dati | C’è un serio problema lavoro

fuga di cervelli dall'italia- freepik - circuitolavoro.it

Fuga dei giovani dall'Italia: nessuna prospettiva futura - circuitolavoro.it (freepik)

Secondo gli ultimi dati Eurostat, l’Italia resta ai primi posti in Europa per numero di NEET, i giovani che non studiano, non lavorano e non seguono percorsi di formazione. Un dato che fotografa un disagio sociale e territoriale ancora profondo.

La sigla NEET (Not in Education, Employment or Training) identifica una fascia cruciale della popolazione tra i 15 e i 29 anni che si trova ai margini del sistema produttivo e formativo. In Italia, secondo le statistiche Eurostat aggiornate al 2025, la quota dei NEET si aggira intorno al 18%, ben al di sopra della media europea, che si ferma poco sotto il 12%. È un fenomeno che si concentra soprattutto nel Mezzogiorno, ma che interessa in parte anche le grandi città del Centro e del Nord, dove la precarietà e la difficoltà di orientamento pesano sul percorso di molti giovani.

Rispetto agli anni precedenti, si registra una lieve diminuzione, segnale che le misure di inserimento lavorativo e le politiche di formazione stanno iniziando a produrre effetti. Tuttavia, l’Italia resta tra i Paesi con la più alta incidenza di giovani inattivi, insieme a Grecia, Romania e Bulgaria. Eurostat sottolinea che il problema non è solo quantitativo, ma qualitativo: molti giovani, pur non figurando nei percorsi di istruzione, alternano lavori saltuari, corsi brevi e periodi di inattività, restando intrappolati in un limbo di incertezza professionale.

Chi sono i NEET italiani e perché restano ai margini

I dati mostrano che oltre la metà dei NEET italiani sono donne, spesso bloccate da responsabilità familiari o da una scarsa offerta di servizi per la conciliazione vita-lavoro. Tra i ragazzi, invece, pesano abbandono scolastico precoce, mancanza di competenze digitali e disillusione rispetto al mercato del lavoro. La transizione scuola-lavoro in Italia resta lenta e complessa: il tempo medio per ottenere il primo impiego stabile supera i tre anni, molto più che in altri Paesi europei.

Secondo Eurostat, un fattore chiave è anche la frammentazione territoriale: nelle regioni del Sud la quota di NEET supera il 25%, mentre al Nord scende sotto il 12%. Differenze che riflettono non solo opportunità occupazionali, ma anche qualità delle politiche giovanili, infrastrutture e offerta formativa. Le aree interne e i piccoli centri soffrono più di tutte, con scarse occasioni di formazione professionale e difficoltà logistiche nel raggiungere i poli di lavoro o di istruzione.

La diminuzione della disoccupazione
La diminuzione della disoccupazione (Fonte: Canva)- www.circuitolavoro.it

Cosa serve per invertire la rotta

Per Eurostat, ridurre il numero dei NEET richiede interventi integrati che uniscano orientamento, formazione e politiche attive del lavoro. L’obiettivo non è solo creare occupazione, ma garantire percorsi sostenibili di inclusione. I programmi europei come “Garanzia Giovani” e i fondi del PNRR stanno contribuendo a potenziare i centri per l’impiego e a rafforzare i corsi professionalizzanti, ma la sfida resta quella di raggiungere i ragazzi più distanti dal sistema, quelli che non si rivolgono a nessuna istituzione.

Un ruolo importante è affidato anche alle scuole e alle imprese. La collaborazione tra ITS, università e aziende è indicata come leva per costruire ponti più solidi verso il lavoro. Le nuove politiche dovranno concentrarsi sullo sviluppo delle competenze digitali, sulle filiere industriali innovative e su percorsi di apprendistato più attrattivi. Eurostat segnala che dove la formazione è legata a esperienze concrete in azienda, il tasso di inserimento lavorativo cresce fino al doppio rispetto ai corsi teorici tradizionali.

La fotografia dei NEET in Italia resta preoccupante, ma non immutabile. L’impegno istituzionale e locale può trasformare l’inattività in opportunità, a condizione che si investa in orientamento, fiducia e prospettive reali. Perché ogni giovane recuperato al lavoro o alla formazione non è solo una statistica che migliora, ma una storia che ricomincia.